Una volta, un maestro di Aikido ci ha riportato questa citazione:
“Non insegnare il budo se sei preoccupato per il tuo komebitsu“.
Le parole sono di Morihei Ueshiba e sono state ripetute più volte al suo allievo Morihiro Saito, come riferisce Gaku Homma in più scritti.
Il komebitsu (米櫃) è il tipico contenitore di legno di in cui le famiglie giapponesi conservavano il riso di cui si nutrivano. Quindi la frase suona un po’ come:
“Se sei preoccupato di che vivere, non insegnare il budo”.
Adesso che da qualche anno, oltre a praticare, insegniamo Aikido, comprendiamo un po’ di più il delicato equilibrio tra la dimensione materiale e quella intangibile della pratica.
Tranne rarissimi esempi che possiamo contare sulle dita di una singola mano, il solo insegnamento a tempo pieno di discipline marziali, non ha mai prodotto ricchezza, intesa come grande disponibilità di finanze e di mezzi.
Piuttosto porta ad una vita in cui una dignitosa sussistenza è già un grosso risultato, frutto di un impegno fisico e mentale molto intenso. Classi, formazione, stage, impegni istituzionali, attività sul territorio: una intensa vita simile al frenetico andirivieni di una formica che fa di cento briciole un pasto.
Colpisce la testimonianza di diversi sensei ormai divenuti anziani: vite intense, spese per la disciplina e quasi sempre per il bene disinteressato verso tanti allievi. Esistenze al limite della povertà, che solo di rado il tatto di alcuni vecchi studenti riesce ad alleviare.
Le mille variabili che vanno ad aggiungersi alla crisi da un lato e alla riforma del settore sportivo dall’altro, rendono la figura dell’insegnante professionista di Arti Marziali estremamente precaria e certamente sottopagata.
Del resto è proprio la figura dell’insegnante stesso, anche scolastico, ad essere sempre stata costantemente svalutata, sminuita e delegittimata tanto a livello salariale quanto sociale.
Le riflessioni che si potrebbero fare sono molte. Ci limitiamo a tre aspetti.
Primo: cliente o praticante?
Per frequentare un percorso di una disciplina marziale occorre pagare. Tanto o poco, dipende dalla prospettiva del proprio portafoglio. In un mondo abituato al concetto che “chi paga, comanda“, non è così semplice concepire il contributo associativo per la frequenza a un corso come qualcosa che ti permette di camminare sul sentiero di una disciplina. Porsi nella dimensione di essere clienti non è sbagliato ma… Chi andrebbe a un concerto di Lady Gaga per vederla schiacciare “play” su un lettore musicale? Eppure, sotto il profilo formale e dell’esperienza sonora, il risultato sarebbe uguale a un concerto dal vivo. Probabilmente anche tecnicamente superiore.
Esigere alti standard di qualità (formazione del docente, sicurezza del luogo di pratica, organizzazione, etc.) è un’attitudine da cliente sana ed utile perché il praticante possa beneficiare del suo percorso. Ma se vuoi praticare, non può essere l’unica prospettiva.
Secondo: allievo o novizio?
Passare dal paradigma cliente-pago-esigo-comando alla modalità praticante non è immediato.
C’è tuttavia almeno un’altra dimensione, almeno nei gruppi che hanno un insegnante professionista e in quelli in cui l’insegnante ha via via ridotto i propri impegni lavorativi a favore dell’insegnamento (sono parecchi e non solo tra i pensionati).
Da un lato la guida, il riferimento tecnico di un gruppo, che vive in modo totale la disciplina. Quantomeno dal punto di vista delle ore dedicate.
Dall’altro gli allievi. Che per far funzionare la baracca, devono alternare lavoro e pratica, altrimenti non solo il Sensei non riesce a fare la spesa, ma anche le bollette degli allievi iniziano ad accumularsi.
Per tanti motivi, in queste condizioni si rischia di invertire causa ed effetto. Ci sono praticanti con tanti bei valori e tecnicamente validi. Ma per quasi tutti la pratica è una parentesi, sebbene molto importante, all’interno delle proprie esistenze. Ha un inizio e una fine. Nel mentre sembra che tutto ruoti intorno al Dojo e magari è anche vero. Ma se ogni gruppo guarda alla propria storia, non può che riconoscere che intorno al Sensei “sopravvivono” pochi praticanti.
Questo è normale nei cicli di studi scolastici: elementari, medie, superiori, università, dottorato… Tutto ha un inizio e (auspicabilmente) una fine e ogni ciclo chiuso apre la strada a un altro.
Si fa più fatica ad accettare in alcuni ambienti che anche il percorso formativo interno a una comunità di pratica si esaurisca nel tempo e traghetti da A a B una persona che probabilmente progredirà nella vita anche grazie all’impegno messo in una disciplina.
Lo sanno bene gli educatori, lo sanno bene parroci e animatori negli oratori. Lo vivono gli insegnanti di Arti Marziali.
E’ ovvio che l’educatore, l’animatore, il parroco, l’allenatore sanno che le persone che si affidano ad essi vivranno esperienze nutrienti e utili per il loro sviluppo -e che quindi la loro proposta è una proposta in qualche modo di un cammino che dura per tutta l’esistenza.
Tuttavia pensare che i propri allievi condividano la medesima radicalità testimoniata, può essere un abbaglio pericoloso. Tanto per il Sensei quanto per l’allievo stesso, che magari può essere indotto a scelte e direzioni che sono prese per non dispiacere il maestro e non per propria consapevolezza.
Questi sono per esempio i casi, non infrequenti, di individui che iniziano a frequentare solo il Dojo, senza alternare relazioni anche in altri ambienti; di persone che senza rendersene conto lentamente mollano la presa su studio o lavoro. Il risultato, di solito, è un bel frontale contro la realtà e, un secondo dopo, la brusca interruzione della pratica.
E se anche così non fosse, se il gruppo riuscisse a condividere sempre in modo costruttivo finalità e principi, in pochi anni cambierebbe comunque fisionomia. I molti che lasciano devono essere sostituiti con almeno altrettanti che iniziano, se si vuole il komebitsu dignitosamente pieno. E questo richiede in qualche modo una continua azione di semina e raccolta.
Terzo: quanto vale per noi l’intangibile?
Da millenni la società ha avuto forme di sostentamento per le persone dedicate al culto religioso. Nella tradizione giudaico-cristiana i sacerdoti non potevano avere proprietà ma erano destinatari di un decimo dei prodotti della terra. In questo modo potevano dedicarsi completamente al culto e al tempio.
Non sapete che coloro che celebrano il culto traggono il vitto dal culto, e coloro che attendono all’altare hanno parte dell’altare? Così San Paolo alle prime comunità, che già allora si ponevano gli stessi problemi.
Questa forma ha attraversato i secoli esistendo in Europa fino alla fine del XIX secolo, per poi essere trasformata in un’imposta versata allo Stato e abolita in tempi recenti (per esempio, in Francia nel 1996). In Italia l’eco di questo tipo di sovvenzioni resiste ancora nella destinazione dell’otto per mille delle imposte a una confessione religiosa.
Lo stesso capita in altre culture verso le figure che si dedicano, nella società, a ruoli di servizio per quelle dimensioni intangibili in cui converge la materialità della nostra esistenza con le esigenze delle nostre componenti spirituali.
Le discipline marziali non sono religioni -anche se molti si legano ad esse con forme e intensità ben superiori- eppure è innegabile che la pratica continuativa si sposti ben presto dal piano puramente fisico a quello psicodinamico.
Migliora di solito il carattere, la focalizzazione, l’intensità, la chiarezza, l’intenzione, la tranquillità…Insieme ad altri aspetti fisici, emotivi, relazionali, empatici…
E allora quanto vale questo per noi?
Per noi che, stando ai dati delle Camere di Commercio, dedichiamo a malapena 5% lordo del nostro reddito alla cultura, all’intrattenimento e allo sport.
Forse vale la pena far sì che il komebitsu di qualcuno che riesce a farci apprezzare l’intangibile sia sempre pieno a sufficienza perché la sua preoccupazione non vada a sommarsi ma a ridurre anche la nostra.
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